8 novembre: Deblin

Durante la notte il treno rimane in sosta e anche metà del giorno 7 lo passiamo fermi, in attesa che venga disponibile una locomotiva. Transitano continuamente treni di materiali diretti al fronte russo, noto delle gigantesche slitte bianche delle quali non riesco ad immaginare l’impiego tattico. Riprendiamo a percorrere la pianura che in questo tratto è ben coltivata: i campi di grano sono immensi, le case dei contadini sono misere capanne costruite in legno ed in paglia. Di tanto in tanto vediamo dei gruppi di persone sulla pessima rotabile che corre lungo la ferrovia, si direbbe gente che ha dimenticato come si sorride tanto è seria, trasognata e assente la loro espressione.

Durante la giornata diamo fondo alla scatoletta e tutta la nostra alimentazione si riduce ad una cucchiaiata di carne. Ma pare che lo stomaco si sia abituato alla sua inutilità poiché, salvo saltuarie eccezioni, non mi tormenta più. Non ci laviamo da cinque giorni e siamo barbuti e pallidi. Comincio a scoprire le cause del macilento aspetto dei prigionieri che ho visti sulle illustrazioni dei giornali.

Passiamo in sosta nella stazione di Varsavia la notte e, alle ore 7 del giorno 8 il treno riparte in direzione sud est. Non abbiamo la minima idea circa la nostra destinazione ma c’è qualcuno che comincia a parlare di lavori sulle retrovie del fronte russo. Altri rievocano la non più allegra “fossa di Katin”. Altri parlano di ebrei racchiusi in un vagone e sballottati in lungo e in largo ed estratti quando già passati a miglior vita. A me ogni cosa è indifferente, non potrei in nessun caso, neppure di fronte alle più nere prospettive, reagire in alcun modo, quindi tanto vale rassegnarsi e subire con indifferenza la sorte che ci è riservata. Rimango tranquillo, penso a casa mia e al mio passato – non mi pare di essermi meritata una sorte così dura e sento in me la certezza che anche la mia famiglia ha tutti i diritti di riavermi – e provo un senso di pace e di fiducia come se veramente tutte le umane vicende fossero regolate da una inderogabile legge di giustizia.

Mi rendo conto di quanto sia bello amare ed essere amati. Anche nei momenti più duri dimentico il presente, mi astraggo dalle pene e col pensiero mi porto nella pace della famiglia ed ho la certezza che anche Renata mi si avvicina, che anche Titti pensa ai giochi che gli insegnavo ed alle favole che gli raccontavo e così, a dispetto di tutti gli eventi avversi, mi si riempie l’animo di una immensa pace nella quale l’universo è diviso in due: noi di quà e il caos dall’altra parte. Trascorro nelle mie serene fantasticherie l’ultima parte del viaggio e, verso mezzogiorno dell’8 novembre mi si dice che siamo giunti a Deblin ove ci fermeremo. In mezzo alla pianura immensa si eleva una lievissima altura sulla quale è costruita la cittadella di Ivangorod – parto della mente tattica di Ivan il terribile. Si tratta di un immenso fabbricato circolare, massiccio e uniforme circondato da reticolati, racchiudente un immenso cortile. Entriamo e la porta si richiude alle nostre spalle. Non c’è più modo di equivocare: potranno chiamarci come meglio crederanno ma la realtà è che siamo dei prigionieri.