Il rimpianto di Deblin

Vengono a salutarci Teston, Bulzacchi e Ungania che sono alloggiati nella baracca di fronte alla nostra. Passo la notte girandomi e rigirandomi sul duro pagliericcio, intirizzito ed indolenzito. Penso alla stanza di Deblin, tranquilla e relativamente confortevole, come ad un gran bene perduto. La mattina del 26, con nelle gambe la stanchezza della marcia, partecipiamo alla prima solenne adunata che vien fatta due volte al giorno, alle 7 ½ e alle 16 ½ per controllarci. Si esce dal recinto delle baracche inquadrati per cinque, a passo di marcia e ci si piazza in un recinto attiguo ove due capitani tedeschi ci contano e ci ricontano fino ad esser persuasi che siamo tutti presenti. Una dozzina di soldati armati di fuciloni Lebel si distribuisce attorno a noi e carica le armi. Sono tutti vecchi ed in gran parte sciancati ma con stenti e fatiche riescono a darsi un contegno marziale: per noi rasentano il ridicolo questi tipi che non possono camminare in due senza prendere il passo ed in tre senza mettersi in fila.

Durante l’appello c’è molto da osservare, quindi la mezz’ora così occupata passerebbe abbastanza rapidamente se il freddo non la rendesse tormentosa. Qualche volta capita che i conti non tornano, che qualche chiedente visita non risulta presente in infermeria ed allora si deve attendere pazientemente che i tedeschi riescano a scovare l’imboscato nella baracca – le cose vanno così per le lunghe e bisogna attendere pazientemente che la quadratura sia ristabilita. A controllo ultimato il maggiore italiano che comanda il campo presenta la forza all’ufficiale tedesco e dà poi l’ordine di rientrare alle baracche inquadrati e a passo di marcia. I soldati tedeschi scaricano le armi e, trascinando le gambe rigide, partono inquadrati. Si vedono i fuciloni dondolare per effetto del loro passo claudicante.

Altra variazione in peggio che dobbiamo subire è quella che riguarda l’alimentazione. Se a Deblin essa era scarsa, qui è scarsissima. Si ha una tazza di tiglio al mattino, una minestra di verdura a mezzogiorno, un sesto di pagnotta e trenta grammi di tiglio alla sera. In complesso c’è quel tanto che basta per sentire lo stomaco vuoto durante venti ore ogni giorno. Nei giorni 26 e 27, non avendo ancora ricevuto il bagaglio, esaurisco le provviste di pane biscottato rimaste dal viaggio, poi, ritirati i bagagli, inizio con Colombo la consumazione del riso che ho nella valigia. Facciamo un giorno ciascuno a metterci gli ingredienti ed a cucinare. Nella camerata c’è una sola stufa e ci son centocinquanta persone a contendersela. Bisogna aspettare il proprio turno con infinita pazienza e limitare la cottura al minimo indispensabile; il completamento lo si ottiene avvolgendo la gavetta nelle coperte; il riso risulta lungo ed impastato ma in compenso aumenta molto di volume.